Relazione presentata al XXIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Allergologia e Immunologia Clinica - in occasione della GIORNATA NAZIONALE CONTRO IL LES
tenutosi a SORRENTO: Sabato 13 Ottobre 2001

 

Pubblicato su ICARO n. 35

LES: NUOVE OPZIONI TERAPEUTICHE

Dott. Andrea Doria

Cattedra e Divisione di Reumatologia, Università di Padova

 

La sopravvivenza dei pazienti affetti da LES è notevolmente aumentata in questi ultimi decenni, passando da valori del 50% a 2 anni a percentuali superiori al 90% a 10 anni (1). Tra i motivi che hanno maggiormente contribuito a questo miglioramento vi è l'efficacia degli schemi terapeutici attualmente impiegati per il controllo della malattia, che consistono nell'uso di cortisonici associati o meno ai chemioterapici (2). Questa terapia non può tuttavia essere considerata del tutto soddisfacente per due motivi: 1) i farmaci impiegati hanno un’elevata tossicità 2) vi sono alcune manifestazioni della malattia che non rispondono alla terapia tradizionale. Si è così alla ricerca di nuovi farmaci o interventi terapeutici che siano più efficaci e, contemporaneamente, meno dannosi rispetto a quelli attualmente in uso.

IMMUNOMODULANTI

Micofenolato mofetil. Il micofenolato mofetil (MMF) è stato inizialmente impiegato nella terapia del rigetto del trapianto renale e più recentemente nel trattamento di altre malattie autoimmuni.

Il MMF, idrolizzato ad acido micofenoleico, blocca selettivamente e reversibilmente l’enzima inosina monofosfato deidrogenasi inibendo la sintesi delle purine, la proliferazione dei linfociti e le risposte anticorpali T-dipendenti.

Nei topi NZB/W, la somministrazione del farmaco ha determinato un’inibizione della produzione di anticorpi ed ha ritardato o addirittura soppresso la comparsa della glomerulonefrite (3).

Alcuni studi osservazionali su pazienti affetti da LES hanno mostrato l’efficacia del farmaco nel trattamento della glomerulonefrite resistente alla ciclofosfamide (4-6), così come altre manifestazioni cliniche. La dose generalmente impiegata è di 500-1000 mg due volte al giorno. Recentemente è stato pubblicato uno studio randomizzato, della durata di 12 mesi, in cui il MMF, somministrato alla dose di 2 gr. al dì per 6 mesi e poi di 1 gr. al dì per altri 6 mesi, è stato confrontato con un protocollo terapeutico a base di ciclofosfamide per i primi sei mesi e di azatioprina nel semestre successivo nel trattamento della glomerulonefrite proliferativa diffusa. Entrambi gli schemi terapeutici prevedevano l’impiego del cortisone. La frequenza di remissione della glomerulonefrite proliferativa diffusa è risultata simile con i due trattamenti, ma il MFM è risultato meno tossico rispetto alla ciclofosfamide (7).

Sono attualmente in fase di svolgimento, in Europa e negli USA, alcuni studi clinici sull’efficacia del MMF sia nell’indurre la remissione della glomerulonefrite proliferativa sia nel mantenerla in remissione dopo induzione con ciclofosfamide.

Talidomide. La talidomide fu sintetizzata a metà degli anni ‘50 ed impiegata come sedativo, fu poi ritirata dal commercio nel 1961 dopo la scoperta della sua teratogenicità. Recentemente è stata approvata negli Stati Uniti per il trattamento delle manifestazioni cutanee della Lebbra.

I meccanismi d’azione che potrebbero essere utili nella terapia del LES sono l’inibizione della chemiotassi e della fagocitosi dei neutrofili e l’inibizione della produzione di TNF-a da parte dei monociti e dei macrofagi dovuta ad un’aumentata degradazione dell’mRNA.

La talidomide impiegata alle dosi di 25-200 mg al dì si è dimostrata efficace nel trattamento delle manifestazioni cutanee del LES. In numerosi studi (8) sono state riportate alte frequenze di remissione (70-90%) delle lesioni cutanee specifiche del lupus, acute, subacute e croniche, resistenti alle altre terapie. La riacutizzazione dopo la sospensione del farmaco è abbastanza frequente.

Dopo la teratogenicità il più temibile e comune effetto collaterale della talidomide è la neuropatia periferica, che si osserva nel 20-50% dei casi e non sembra correlata alla dose ed alla durata del trattamento. Il danno può essere irreversibile, quindi la neuropatia non sempre regredisce con la sospensione del farmaco. Per ridurre il rischio di neuropatia è consigliabile iniziare il trattamento con una dose bassa (50-100 mg) e, se necessario, aumentarla successivamente. Va inoltre eseguita una valutazione neurologica, clinica ed elettrofisiologia, prima di iniziare il trattamento e, successivamente, ad intervalli di 3-6 mesi. Il farmaco dovrà essere sospeso in caso di comparsa d’anomalie di conduzione nervosa. Altri effetti collaterali meno gravi sono: sonnolenza, nausea, depressione, prurito, rossore al palmo delle mani, aumento di peso e secchezza delle mucose.

Immunoglobuline Endovena (IGEV). Le IGEV sono state tradizionalmente impiegate nel trattamento dei deficit d'immunoglobuline e, associate al cortisone, nella porpora trombotica trombocitopenica idiopatica.

Anche se l’esatto meccanismo della loro azione non è conosciuto è stato proposto che esse modulino la deposizione di immunocomplessi, la produzione di anticorpi anti-DNA o il network idiotipico. Recentemente, alcuni ricercatori hanno dimostrato anticorpi anti-Fas, capaci di indurre apoptosi dei linfociti B e T, nelle preparazioni di IGEV (9). Numerosi studi osservazionali e descrizioni di casi clinici (10) documentano l’efficacia IGEV alla dose standard di 400 mg/kg/die per 5 giorni nel trattamento delle manifestazioni renali e non renali del LES. La terapia con IGEV è ben tollerata ed il limite maggiore ad un loro più largo utilizzo è il costo elevato.

 

FARMACI BIOLOGICI.

Sono stati recentemente individuati nuovi agenti terapeutici, cosiddetti "biologici", perchè interferiscono con specifici processi cellulari. Nella terapia del LES sono in fase di sperimentazione sull’animale e/o sull’uomo alcune molecole che interferiscono con i seguenti processi immunologici: attivazione dei linfociti T e collaborazione linfociti T-linfociti B, produzione di anticorpi anti-dsDNA, deposizione di immunocomplessi DNA-anti-DNA, attivazione e deposizione del complemento, attivazione e modulazione citochinica

Attivazione dei linfociti T e collaborazione linfociti T-linfoiciti B. La maggior parte di questi agenti è diretta ad inibire le molecole di costimolazione. Si è visto, infatti, che esse sono determinanti nell’avviare la risposta immunitaria ed in mancanza di un’adeguata costimolazione i linfociti T, a contatto con l’antigene, vanno incontro ad apoptosi.

Un legame di costimolazione avviene tra il CD40 ligand (CD40L) espresso sui linfociti T attivati e l’antigene CD40 presente sulla superficie di linfociti B, macrofagi, cellule dendritiche ed endoteliali. L’attivazione dei linfociti T e la risposta B- linfocitaria T-dipendente sono inibite se il legame CD40-CD40L è bloccato. Nei topi NZB/W l’esordio della glomerulonefrite può essere prevenuto o ritardato con la somministrazione di anticorpi monoclonali (mAbs) anti-CD40L (11). Attualmente sono in corso due sperimentazione cliniche con due diversi tipi di anti-CD40L mAbs.

Un altro legame di costimolazione avviene tra la molecola CTLA-4, espressa sulla superficie dei linfociti T attivati, e l’antigene B7 presente sulla superficie dei linfociti B e delle antigen-presenting cells. Il CTLA-4Ig è una proteina di fusione tra il dominio extracellulare del CTLA-4 e la porzione Fc delle IgG1. Questa molecola si comporta come un recettore solubile prevenendo il legame CTLA-4/B7. La somministrazione di CTLA-4Ig ai topi NZB/W ha bloccato la produzione di anticorpi anti-DNA e prevenuto l’insorgenza della glomerulonefrite, mentre la somministrazione di questa molecola, in associazione alla ciclofosfamide ai topi con glomerulonefrite in fase avanzata, ha ridotto la proteinuria ed aumentato la sopravvivenza (12). La molecola è in fase di sperimentazione anche nell’uomo.

Produzione di anticorpi anti-dsDNA. LJP-394 è una molecola formata da una struttura centrale trietilenglicola a cui sono attaccate 4 molecole oligonucleotidiche di dsDNA. Questo composto si lega agli anticorpi anti-dsDNA presenti sulla superficie dei linfociti B inibendone la produzione.

Nei topi BXSB, la somministrazione di LPJ-394 ha ridotto la proteinuria e prolungato la sopravvivenza (13). Nell’uomo, la somministrazione di questo composto, alla dose di 50 mg alla settimana, ha determinato una riduzione del 50% dei livelli degli anticorpi anti-dsDNA (14). E’ in corso uno studio clinico in doppio-cieco, controllato con placebo, di fase II-III, sull’efficacia del LPJ-394 nel mantenere la remissione nei pazienti con glomerulonefrite in fase di quiescenza.

Deposizione di immunocomplessi DNA-anti-DNA. Nei topi NZB/W con glomerulonefrite attiva, è stato dimostrato che la somministrazione giornaliera di 5 mg di DNAsi murina ricombinante per 3 settimane riduce sia il numero dei linfociti B splenici che producono anticorpi anti-dsDNA che i livelli sierici di questi anticorpi (15). Secondo gli autori l’effetto è dovuto alla degradazione degli immunocomplessi che rappresentano un continuo stimolo di attivazione per i linfociti B autoreattivi. Tuttavia il trattamento con queste molecole non sembra modificare la produzione citochinica, ritardare l’esordio o ridurre la gravità della glomerulonefrite o, infine, prolungare la sopravvivenza dei topi sia nella terapia a breve che a lungo termine (16).

Poiche’ la somministrazione di DNAsi ricombinante (rHuDNAsi) era stata ben tollerata da alcune volontarie sane, il composto è stato somministrato a 17 pazienti in uno studio clinico randomizzato, in doppio-cieco, controllato con placebo (17). Lo schema terapeutico consisteva in una singola infusione endovena seguita dalla somministrazione sottocutanea per 5 giorni. Si è visto che i livelli sierici di rHuDNAsi capaci di idrolizzare il DNA si raggiungevano solo per un breve periodo dopo la somministrazione endovena e non dopo quella sottocutanea. In questo studio preliminare non sono state osservate variazioni nell’attività di malattia e nei livelli sierici degli anticorpi anti-dsDNA, del complemento o delle citochine.

Attivazione e deposizione del complemento. Nelle fasi di attività del LES vi è un’attivazione del complemento con riduzione dei livelli di C3, C4 e CH50. Possono essere attivate sia la via classica sia quella alternativa che convergono a livello di C5 con formazione di C5a, che è proinfiammatorio, e C5b-C9 che serve per l’attacco alla membrana cellulare. E’ stato quindi prodotto un anti-C5 mAb che somministrato ai topi NZB/W ha ritardato la comparsa di proteinuria e prolungato la sopravvivenza (18). Nell’uomo è in fase di sperimentazione un mAb chimerico formato da recettori Fc di IgG2 umane ed il recettore murino anti-C5 formato dalle regioni determinanti complementari. Questo mAb somministrato a volontari sani si è dimostrato capace di legare il C5a nel siero e di inibire l’attività complementare emolitica del siero per 12-24 ore.

Attivazione e modulazione citochinica. Nelle fasi di attività del LES sono aumentati sia i livelli sierici di IL-10 che la produzione spontanea e stimolata di IL-10 da parte di PBMC. L’IL-10 è un fattore di crescita e differenziazione per i linfociti B. Nei topi NZB/W la somministrazione di IL-10 accelera l’esordio della glomerulonefrite e la somministrazione di anti-IL-10 mAbs la ritarda (20). La somministrazione giornaliera per via endovenosa di anti-IL-10 mAbs in pazienti con LES si è dimostrata efficace nel migliorare le manifestazioni cutanee ed ha dato risposte variabili sul controllo di altre manifestazioni quali l’artrite, le sierositi e la glomerulonefrite (20).

 

TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI

Il trapianto di cellule staminali (Haemopoietic Stem Cell Transplantation - HSCT) è stato recentemente proposto per i pazienti affetti da LES e da altre malattie autoimmuni con manifestazioni gravi che non rispondono alle terapie standard.

Le ragioni di questo nuovo approccio terapeutico derivano da alcune osservazioni fatte sull’animale e sull’uomo. I dati sull’animale hanno dimostrato che tre diversi modelli di malattia autoimmune sperimentale (l’artrite da adiuvanti, l’encefalomielite sperimentale allergica e la miastenia sperimentale autoimmune) possono andare in remissione completa dopo mieloablazione seguita dalla somministrazione di midollo singenico, pseudoautologo o autologo (21). A ciò si deve aggiungere l’occasionale osservazione, in un numero limitato di pazienti, della prolungata remissione di una malattia autoimmune in soggetti che avevano eseguito un trapianto autologo per una concomitante neoplasia (22).

Il razionale del HSCT prevede che un’intensa terapia immunoablativa riesca ad eliminare i cloni linfocitari autoreattivi e che il successivo trapianto di cellule staminali autologhe ricostituisca il sistema immunitario.

Un ruolo importante nel guidare e coordinare l’impiego del HSCT nel trattamento delle malattie autoimmuni severe è stato svolto da un gruppo di studio nato dalla collaborazione tra l’European Group for Blood and Marrow Transplantation (EBMT) e la European League Against Rheumatism (EULAR) sia attraverso l’elaborazione di linee guida che la pubblicazione periodica dei casi registrati (23).

Le più recenti informazioni raccolte nell’EBMT/EULAR database, riguardano 310 pazienti dei quali 23 affetti da LES. In 14 di questi pazienti le manifestazioni cliniche sono migliorate, in 5 dopo un’iniziale remissione vi è stata una riacutizzazione ed in 1 paziente non vi è stata alcuna risposta. Tre pazienti sono deceduti per infezioni e complicanze della terapia mieloablativa.

Un approccio alternativo proposto dalla Johns Hopkins University prevede l’induzione di aplasia midollare con dosi di ciclofosfamide di 200 mg/kg seguita da una terapia di supporto in attesa che il midollo si ricostituisca spontaneamente (24). Questo approccio si basa sul fatto che le cellule staminali sono resistenti alla ciclofosfamide per un enzima, l’ aldeide deidrogenasi , che inattiva i metaboliti attivi della ciclofosfamide. Per questo motivo la ciclofosfamide non può mai dare una vera mieloablazione, non c’è quindi la necessità assoluta del trapianto di cellule staminali per la ricostituzione del midollo. Si tratta inoltre di un intervento più economico rispetto al HSCT e meno dipendente dall’alta tecnologia, tuttavia questo approccio lascia il paziente in aplasia per un periodo più lungo rispetto al HSCT dove la ricostituzione del midollo avviene in 10-12 giorni, aumentando quindi il rischio di eventi avversi.

 

PLASMAFERESI

Questa tecnica prevede la rimozione del plasma totale che si ottiene mediante separatori cellulari o filtri plasma-separatori e la reinfusione di plasma ottenuto da donatori o meglio di albumina. Attraverso questa metodica ci si prefigge di eliminare autoanticorpi, immunocomplessi, citochine ed altri mediatori delle risposte immunitarie e infiammatorie che hanno un ruolo centrale nella patogenesi del LES. A parte il costo elevato, un’altra riserva limita il suo impiego ed è rappresentata dal fenomeno di "rebound" che può verificarsi in seguito all'asportazione dal circolo di autoanticorpi e di altri mediatori immunologici. Per questo motivo viene usualmente impiegata in associazione a farmaci citotossici che avrebbero il compito di inibire appunto tale fenomeno.

Nonostante il grande entusiasmo suscitato inizialmente dal grande numero di segnalazioni in cui questa procedura terapeutica era risultata utile nel controllare casi particolarmente gravi di malattia, gli studi clinici randomizzati non sono riusciti a dimostrare una maggiore efficacia della plasmaferesi associata a terapia standard nei confronti della sola terapia standard nel trattamento della glomerulonefrite e di altre manifestazioni lupiche (25,26).

Attualmente trovano indicazione al trattamento plasmaferetico alcune sindromi associate al LES quali la porpora trombotica trombocitopenica, la sindrome uremico-emolitica, la crioglobulinemia o la sindrome da anticorpi antifosfolipidi "catastrofica". La plasmaferesi rimane inoltre un’opzione terapeutica nel trattamento di alcune manifestazioni particolarmente violente (emorragia polmonare) in cui è richiesto un intervento tempestivo oltre che aggressivo.

 

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